Quando le multinazionali estere fanno spesa nel Made in Tuscany

Mister Wu è sbarcato a Massarosa, luogo amato da Puccini, entroterra di Viareggio. Mr. Wu Tonghong non è il protagonista nel nuovo film di 007, ma è il signore che ha firmato l’acquisto della Salov, l’ultimo marchio indipendente italiano in fatto di olio d’oliva. La società anonima lucchese olio e vini (Salov sta per questo) fattura 330 milioni di euro e detiene il 10% del mercato italiano con i marchi Sagra e Berio. La Bright Food, 17 miliardi e mezzo di dollari di fatturato, dovrebbe avere sborsato 100 milioni di euro per il 90%. Il resto rimarrà in mano ad Alberto Fontana, che resterà come ad dell’azienda. I Fontana sono una delle famiglie più note di Lucca, con vari possedimenti immobiliari, fra cui il vecchio stabilimento nel cuore di Viareggio che da tempo attende una «valorizzazione immobiliare».

LA SALOV AI CINESI
La storia della Salov venduta ai cinesi ha un sapore amaro, come certi olii non italiani. I Fontana erano in corsa mesi fa per comprare il marchio Bertolli, che da solo valeva 200 milioni di euro. Messo sul mercato dalla multinazionale Unilever è finito in mano agli spagnoli che già hanno Carapelli. Impossibilitati a crescere (e con relativa armonia in azienda fra i soci-parenti) hanno deciso di vendere.
Mister Wu, tifosissimo del Milan ed in particolare di Ruud Gullit, annuncia investimenti nel (peraltro già moderno) stabilimento di Massarosa, costruito di fronte al lago di Massaciuccoli. Si parla di una iniezione di liquidità di 20 milioni di euro. Oggi la quota di olio Salov venduta in Cina è dell’1%. Wu annuncia che la raddoppierà ogni anno. Forte della richiesta del mercato di prodotti alimentari italiani. «In Cina – racconta al Corriere della Sera – ci sono sul mercato circa 300 marchi: spagnoli, greci, qualche italiano. Vogliamo fare del marchio di Lucca il leader in Cina».
E lasciamo perdere che i marchi di Salov non siano nè Dop nè Igp. Dal 2006 il consumo di olio in Cina è aumentato del 50% e a fine anno toccherà quota 140mila tonnellate. Naturalmente per noi italiani l’olio è solo evo (ovvero extra vergine di oliva), per la Cina chissà.

L’ALIVAL PARLA INGLESE
Se l’olio dice Italia, figuriamoci cosa dice al mondo la parola mozzarella (di bufala o no, è un dettaglio). Ma anche qui un marchio toscano (importante) se ne va all’estero. È l’Alival della famiglia lucchese Fanucchi. Ha 150 dipendenti a Ponte Buggianese in Valdinievole e altri 80 a Porcari in Lucchesia. Ma del gruppo è anche il Caseificio dell’Amiata. Soprattutto fanno capo all’Alival le mozzarelle dop Mandara. Marchio molto diffuso all’estero. La scorsa primavera l’Alival, con problemi di liquidità, è stata ceduta alla Nuova Castelli, colosso del Parmigiano con sede a Modena. Ma mister Bigi ha fatto presto a vendere al fondo inglese Charterhouse. Il gruppo con 1200 dipendenti dichiara un fatturato di oltre 800 milioni di euro e tante beghe in casa. A partire da un mega impianto di stagionatura del Parmigiano che non ha mai aperto per tutta una serie di ostacoli burocratici.

LA CATENA UNAHOTELS FA GOLA AGLI ISPANO-CINESI
In questi giorni c’è un terzo gruppo nato e cresciuto in Toscana che è sul mercato. Si tratta della Unahotels catena di alberghi a 4 e 5 stelle messa su da Riccardo Fusi, il costruttore edile pratese rimasto implicato nello scandalo degli appalti pubblici fra Roma e Firenze. Il gruppo è finito in mano alle banche. Con un fatturato di 70 milioni denuncia un indebitamento con gli istituti di credito pari a 270 milioni di euro. Dalla sua ha però un asset: su 31 hotel gestiti ben 17 sono di proprietà. Fra cui autentici gioielli come l’Unahotels di Roma ma anche quello di Lido di Camaiore e villa le Maschere nel Mugello (splendido resort a 5 stelle). In corsa per acquisire la catena (matedì 16 si aprivano le buste con le offerte) colossi alberghieri come Nh Hoteles (spagnoli con capitali cinesi), Melià, Starwood, Accor e anche l’italiana Alpitour.
Nella casa madre di Calenzano c’è molta preoccupazione. Si teme un calo dei posti, ma soprattutto ci si chiede perché un marchio di qualità debba finire in mano straniere quando da anni si lamenta che l’Italia non abbia una grande catena hotellier dopo la fine della Ciga, ma anche della Jolly hotel dei Marzotto.
In Toscana il gruppo ha sei alberghi: due in Versilia, due nel Mugello, uno a Firenze e palazzo Mannaioni a Montaione. In più c’è il centro nevralgico del gruppo che ha sede legale a Milano ma quasi 80 dipendenti a Calenzano fra centro prenotazioni, addetti agli acquisti, marketing etc. Che temono di andare a casa, in caso di sinergie con grossi gruppi. Le vicende di Fusi sono note, ma riguardo alla Unahotels aveva avuto una bella intuizione. Da Calenzano ci si chiede perchè in Regione si pensi a tutto fuorchè ai posti di lavoro che si rischia di perdere nel turismo. In gran parte – fra l’altro – contratti annuali e non stagionali. Anche in realtà come la Versilia dove Unahotels ha giusto rilevato un hotel la scorsa stagione a Forte, alla luce dei successi ottenuti dal primo hotel del Lido.
Agroalimentare e turismo, due settori ancora trainanti ma che poco interessano alla politica. O almeno sembra.

 

Il commento di Cristiano Meoni – Ma il lavoro rimanga qui da noi

Ieri la Carapelli e la Bertolli, oggi la Salov – conosciuta per i marchi Sagra e Berio – domani chissà cosa. Statene certi: non finisce qui. Il carrello della spesa dei compratori stranieri non è ancora pieno. E del resto perché meravigliarsi? Solo un mese fa il Financial Times ha premiato la Toscana per la migliore strategia di attrazione di investimenti esteri tra le regioni del Sud Europa. Anche se è “sud”, un primato che non può che inorgoglire. Tra il 2005 e il 2010 le multinazionali straniere hanno investito nella nostra regione una media di 300 milioni l’anno, salita a 400 milioni nel triennio 2011-2013. Perché meravigliarsi ma anche: perché contrariarsi? D’istinto, nell’apprendere che marchi dell’eccellenza toscana stanno per finire in mani straniere, non si può che reagire con fastidio, facendo suonare le campane della toscanità. Ma è sufficiente un minimo di raziocinio per realizzare che l’alternativa allo straniero è quasi sempre peggiore: la marginalità nel mercato globale e poi la chiusura (ce ne sarebbe una terza: i soldi, ma gli imprenditori toscani non ne hanno abbastanza per il salto di qualità) .

Non serve scomodare la Lucchini, che oggi ha un futuro solo perché un signore venuto dall’Algeria ha messo sul piatto 400 milioni di euro. Tornando alle tre vicende di cui parliamo in questa pagina, è evidente che per ciascuna di loro l’intervento esterno è utile quando non provvidenziale, apporta capitali e reti di distribuzione e commercializzazione che possono far crescere le aziende sui mercati mondiali: aziende altrimenti impossibilitate a fare ricerca e sviluppo e costrette a competere con gli stessi prodotti sugli stessi sempre più asfittici mercati “maturi”. Certo, c’è anche un dose di rischio: il rischio che il compratore straniero sia interessato solo ad accaparrarsi il marchio e che, in un secondo tempo, sposti la produzione in paesi a più basso costo. O che un padrone molto distante e per niente condizionabile dal territorio abbia meno scrupoli a spegnere una fabbrica con un clic. Ma dove non esiste il rischio, oggi? Lo spartiacque tra buona e cattiva operazione non è facile da delineare ma la linea di condotta che la Regione sta tenendo sulla vendita della Mukki Latte, un’altra piccola eccellenza toscana, può offrire un utile modello: a noi non interessa se la Mukki finirà in mano a Granarolo – dice la Regione – a noi interessa che il nuovo proprietario mantenga in Toscana la filiera di produzione. Il lavoro, che poi è l’unica cosa che conta. Se i nuovi padroni cinesi o i fondi anglosassoni sapranno garantire più lavoro, per i toscani, in Toscana, allora siano i benvenuti.

 

Articolo tratto da IlTirreno.it di Corrado Benzio, con il commento di Cristiano Meoni

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