In Toscana le fragole crescono su un mini-grattacielo grazie all’idea di un giovane ingegnere della Valdichiana.

Lo scouting di aziende innovative del progetto Agrinnova di Wired e Ibm comincia con il vertical farming di un ingegnere innamorato dei campi della Valdichiana. Una serra autosufficiente per l’agricoltura verticale, dove allevare fino a 15 chili di pesce e coltivare 4000 piantine da insalata.

Intorno al piccolo borgo di Torrita di Siena c’è la Toscana che tutti immaginano. È da questo piccolo angolo di paradiso che inizia lo scouting di aziende innovative del progetto Agrinnova di Wired e Ibm. Un luogo da sogno che, in questo caso, ha fatto da sfondo a un progetto da sogno: mescolare tradizione agricola e innovazione tecnologica per creare un edificio autosufficiente, in grado di ospitare un allevamento ittico e una coltivazione di quattrocento piante.

Quando Matteo Benvenuti ha cominciato a dare forma a questa idea era un giovane laureando della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Perugia. Sul tavolo del suo relatore c’era una tesi di laurea sul tema dell’urbanizzazione sostenibile: il masterplan di una città a ciclo chiuso, autosufficiente dal punto di vista energetico, alimentare e idrico. “È riduttivo parlare di reti intelligenti solo in ambito elettrico – ci spiega – Perché allora non pensare a una smart grid per la filiera agroalimentare? Un edificio a ciclo chiuso dalla produzione alla vendita, fino al riciclo. Inserito in un area urbana, magari per recuperare strutture abbandonate, può essere messo in rete con i campi tradizionali, in un luogo dove si vendano sia i prodotti della vertical farm che quelli delle altre coltivazioni”.

COS’È UNA “VERTICAL FARM”?
La “fattoria verticale” altro non è che una sorta di serra che si sviluppa in altezza anziché su grandi superfici di terreno. Il prototipo costruito e autofinanziato da Matteo – “in sei mesi, con la grandine e con il sole”, ci racconta – è una struttura circolare di forma iperboloide di 4 mq in pianta. Il diametro della base circolare è di 2,5 metri, il piccolo grattacielo verde, come l’hanno già ribattezzato alcuni, è alto 5,5 metri incluso un generatore eolico che, insieme a un pannello solare, ne assicura l’autosufficienza energetica. “Con queste dimensioni abbiamo un volume di coltivazione effettivo di 16 mq, sufficiente per coltivare 400 piante di medie dimensioni, fino a 4000 piantine da insalata in un anno. È una densità elevata: in un campo tradizionale servirebbe il quadruplo dello spazio”.

All’interno della struttura c’è una sorta di acquario e file di banchi per la coltivazione. Il primo serve per arricchire l’acqua di elementi nutritivi utili all’irrigazione delle piante. Come spiega Matteo “è un sistema vivo, un edificio vivente perché ci sono anche dei batteri che fanno sì che la serra possa funzionare”. Si chiama acquaponica: i pesci secernono azoto ammoniacale e feci, in un filtro due ceppi di batteri “buoni” decompongono le sostanze in nitriti e nitrati, poi l’acqua viene inviata nei banchi di coltivazione e le piante assorbono i nitrati dall’acqua, crescono e a loro volta depurano l’acqua che torna all’interno della vasca dei pesci. “È un sistema chiuso autopulente, salvo la manutenzione che, quando il ciclo è a regime e la colonia batterica è formata e resistente, è bassissima”.

LA VERTICAL FARM CHE GUARDA AL PROTOCOLLO LEED
Nel progetto nulla è lasciato al caso. La forma iperboloide è stata scelta perché consente la massima stabilità con il minimo dispendio di materiali e quindi costi. La scelta di legno e acciaio per la struttura è voluta, perché si tratta di materiali adatti per contatto alimentare, reperibili a chilometro zero, riciclabili. “L’idea è di minimizzare il consumo di risorse anche in fase di costruzione – specifica Matteo – sulla scia del protocollo Leed”. E infatti l’energia che tiene in piedi la vertical farm è completamente autoprodotta, grazie a un generatore eolico, a un pannello fotovoltaico e a una batteria di accumulo. La pompa dell’acqua e l’areatore funzionano in autonomia per 24 ore; se ciò non dovesse bastare “c’è un sistema di switch a corrente elettrica e la struttura può andare avanti lo stesso”.

Nel prototipo sono state coltivate solo fragole e insalata, mentre nella vasca ci sono pesci rossi “perché sono molto resistenti alle variazioni dei parametri dell’acqua, dunque migliori per fare sperimentazioni”. Ma potenzialmente si possono produrre cetrioli, pomodori e fino a 15 chili di pesce come trote, carpe, tilapia e altre specie di acqua dolce.

TECNOLOGIA LOW COST: MODELLO DA ESPORTARE
Rispetto ad altre vertical farm – l’Enea ne ha installata una ad altissima tecnologia all’Expo – i vantaggi competitivi dell’idea di Matteo sono invece la semplicità di funzionamento, i costi bassi di realizzazione e l’idea più grande di inserire la “fattoria verticale” in un contesto più ampio. Certo i costi iniziali sono più elevati rispetto alle piantagioni tradizionali in campo aperto, ma questa “serra smart” in qualche modo riduce i rischi legati ai cambiamenti climatici, le perdite di raccolto per grandinate o siccità. “Se riusciamo a posizionarla in aree urbane ad alta densità di popolazione o in piccole comunità, possiamo garantire una base alimentare per tutti, salutare e a chilometro zero, oltre a recuperare edifici dismessi e quindi a riqualificare il territorio”. Un’idea che fa pensare anche alla cooperazione internazionale. Non a caso la tesi da cui è partito tutto era pensata per una città in Marocco. “Tutto sta nel capire le caratteristiche del posto e adattare la vertical farm alle diverse condizioni: in Scandinavia avremo il problema del freddo e della luce, in Nordafrica l’opposto: ma il progetto è scalabile e applicabile a tutte le situazioni”.

DAI TETTI DI MANHATTAN ALLE COLLINE DELLA VALDICHIANA
Dietro la vertical farm di Matteo non c’è ancora una startup innovativa “ma vorremmo farlo presto”, ci confessa lui. “Vorrei rendere questa tecnologia sempre più presente anche in Italia”. Il suo sogno, quello nato guardando i campi della Valdichiana, è di realizzare un quartiere agroalimentare dove tanti edifici, magari di piccole dimensioni, siano integrati nel territorio e con la filiera di produzione tradizionale.

Una grande ambizione che forse l’idea della vertical farm si porta dietro da quando è stata teorizzata, dal Prof. Dickson Despommier della Columbia University, tempio dell’eccellenza accademica a livello mondiale. Il suo progetto era di creare orti urbani sui tetti di Manhattan. Non ci riuscì, e optò per l’idea di una serra verticale, un grattacielo. Peccato che anche lui non potesse ispirarsi alle colline sempreverdi della Toscana.

Foto e testi di Federica Ionta su Wired Italia

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